"Il nome del figlio" di Francesca Archibugi Stampa
Scritto da Rossella Scialla   
Venerdì 23 Gennaio 2015 10:05

La sfida difficile di chi fa un remake, attingendo magari da pellicole straniere, è quella di ricreare un’atmosfera familiare, nostrana, qualcosa che ci appartenga da sempre o che rifletta il tempo che stiamo attraversando. Che ci faccia sorridere, a volte amaramente e ci faccia sentire in pace con noi stessi, meno colpevoli perché in fondo lo fanno tutti e se questa non è una giustificazione, è pur sempre una consolazione. Nemmeno poi tanto magra.

Il film di Francesca Archibugi, Il nome del figlio, scritto a quattro mani con Francesco Piccolo e remake del film francese Le Prénom di Alexandre de la Patellière, dal titolo italiano Cena tra amici, per essere in pace con se stesso e generare quel sorriso consolatorio che ci basta riflette gli eccessi della nostra Italia: chi vive di cultura, circondato, quasi braccato dai suoi stessi libri in una casa che si trasforma in un mausoleo e chi i libri se li fa scrivere, guadagnando più tempo e alla fine anche più denaro.  Chi si crea una vita parallela dietro un nickname e chi indossa calzini a righe e ascolta musica classica e per questo viene soprannominato la prugna, epiteto facilmente decifrabile. Il tutto miscelato a una cena in cui amici di vecchia data si ritrovano, litigano per il nome del figlio in arrivo scelto da una delle coppie, ricordano, ballano, c’è una scena bellissima in cui passato e presente si sovrappongono attraverso una canzone emblematica di Lucio Dalla, si riappacificano e si rivelano. Se il film francese sceglie la sobrietà come soggetto e una sola ambientazione come scenografia, scelta motivata anche in questo caso da un desiderio di riconoscimento, dal tentativo di rappresentare ciò che i francesi avrebbero potuto o voluto riconoscere come proprio, la Archibugi si siede sulla poltrona dello spettatore e sorride, quel sorriso che dice: “Dai, in fondo siamo fatti così, è anche divertente se ci pensi e poi non ce la faremmo noi a stare tutto il tempo chiusi in casa. Usciamo, urliamo anche all’esterno, facciamo in modo che gli altri ci sentano”. Perché è l’altro in questo film il vero protagonista: i nostri sforzi, la fatica perpetrata tutta la vita per dare all’altro una certa immagine, di potere, forza, cultura, serietà. E l’altro può essere chiunque, non importa, un professore emerito di lettere conosciuto solo su internet o l’amico di una vita, l’importante è che ci creda o che almeno lo lasci credere a noi. Perché la montatura può crollare in un secondo e rivelare quello che siamo, diversi dagli altri, a volte noiosi, taciturni, spaventati, balbettanti parole di cui conosciamo troppo bene il significato, drammaticamente autentici.